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Il futuro visto dal designer: “Salveremo gli oggetti dal trionfo del digitale”

Mentre il mondo si riempie di intelligenza digitale, il designer Giulio Iacchetti rivendica quella analogica delle cose. «Esiste, anche se cercano di convincerci che un oggetto valga l’altro». Iacchetti, due volte Compasso d’Oro, lunedì prossimo (28 gennaio, Fondazione Feltrinelli, Milano) sarà tra i protagonisti del “Talks on Tomorrow” dal titolo “Il design tra intelligenza umana e intelligenza Artificiale”. Con lui, nell’incontro organizzato da Repubblica e H-Farm, in collaborazione con Audi, sul palco milanese ci saranno Valeria Palermi, direttore di D la Repubblica, Massimo Banzi, co-fondatore e presidente di Arduino e curatore di Maker Faire Roma, Fabrizio Longo, direttore Audi Italia e Stefano Maffei, professore ordinario presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, responsabile scientifico di Polifactory e direttore del Master in Service Design. Per partecipare ci si può iscrivere su larep.it/talks.

Per Iacchetti il valore delle cose non è questione di personalità («tanti oggetti anonimi sono straordinari») o bellezza («è soggettiva»). «Conta la bontà. Le cose progettate bene sono indimenticabili: resistono alle mode, raccontano la dignità del lavoro e delle terre che li originano. E parlano: guardandole si immagina una ritualità condivisa tra noi e loro. Come con una persona speciale con cui si percepisce la proiezione di una vita comune».

Che rapporto ha col digitale un designer innamorato della fisicità?
«Rispetto la tecnologia, ma mi tiro indietro nella corsa per ridurre all’irrilevanza il mondo fisico. Digitalizzare tutto perché si può è quasi una negazione del senso animale del vivere. Da quando il tempo dedicato al mondo immateriale occupa gran parte delle nostre vite, cresce una resistenza diffusa. Perché il mondo avrà sempre bisogno di oggetti. Buoni e rilevanti».

Però ha progettato oggetti hi-tech. Per esempio il taccuino di Moleskine che trasforma schizzi e testi in file digitali…
«Mi piace lavorare su progetti che creano ponti. In questo caso, tra analogico e digitale, per dimostrare che soluzioni più fluide sono possibili e auspicabili».

È il compito del design? Far dialogare universi lontani?
«Il compito del design è mettere anima nelle cose. Iniettare intelligenza nel risultato finale. Perché se un prodotto è banale, anche se è stato realizzato con strumenti altamente innovativi (dalla manifattura per addizione al generative design) direi: tanto rumore per nulla».

Come mettere in discussione l’intelligenza artificiale quando, per esempio nella mobilità, migliora la vita?
«L’auto intelligente supplisce alle mancanze di chi guida. Perché è più facile investire nell’essenza smart degli oggetti piuttosto che nelle persone. In questo travasamento di competenze siamo inermi: se l’intelligenza è nelle cose della nostra intelligenza cosa ce ne facciamo? Rivendico la necessità di elaborare una filosofia sul rapporto che abbiamo con le cose smart».

Chi potrebbe occuparsene?
«Non so. Siamo in un’era di pensieri deboli, manca la dimensione collettiva anche se siamo tutti connessi. Anzi, i social hanno dato un colpo mortale alla partecipazione alla cosa pubblica. Mai come ora è stato facile amplificare pensieri – buoni o cattivi – ma difficile ingaggiare conversazioni impegnate, oltre la denuncia da tastiera o i like. Manca l’iniziativa che porti le persone a unirsi e quindi la possibilità di definire pensieri di rottura, potenti e condivisi».

Lei invece lavora spesso in gruppo.
«Credo nel potere delle idee nate da una collettività. E in questa fase della mia vita ho un bisogno quasi fisico di lavorare con gli altri. Una cosa che le macchine non sapranno mai fare».

Anni fa hai realizzato una mostra sugli Oggetti Disobbedienti. Nel mondo degli algoritmi ci sarà spazio per la disobbedienza?
«La disobbedienza oggi è essere padroni del proprio tempo. In questo senso tutti gli oggetti che aiutano a ignorare le regole imposte dalla tecnologia sono disobbedienti. Ho appena acquistato, per esempio, un telefono Punkt che fa solo telefonate ma è anche un modem. Mi fa andare online quando serve ma non mi richiama all’ordine vibrando. Non è un oggetto nostalgico, non rinnega la tecnologia ma le dà un ruolo circoscritto nel quotidiano».

Come mai la domotica e il design industriale autoriale non si incontrano?
«Pochi imprenditori in Italia, al di fuori del settore dell’arredo, sono tanto umili per capire che per dare a un prodotto una forma che abbia senso serve un progettista. Al contrario di quanto avviene nei paesi del nord, dove non si realizzerebbe alcunché senza coinvolgere un designer».

Qual è il suo più grande desiderio di industrial designer?
«Toccare il grande pubblico. I designer sono spesso impegnati su progetti riconducibili a un’élite anche perché, come abbiamo detto, gli imprenditori e le aziende che capiscono il valore del design sono pochi. Mentre circondarsi di cose buone non dovrebbe essere un lusso ma un diritto».

 

 

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